Giuseppe Perfetto partecipante SLPcf

Il paziente può spesso fare il suo ingresso nella stanza dell’analista parlando della realtà esterna vissuta come insopportabile e presentando se stesso come la vittima innocente. Queste sono manovre «di tipo classico agli inizi del trattamento»[1]. Si tratterebbe delle «rivendicazioni dell’“anima bella”, quella che insorge contro il mondo in nome della legge del cuore», afferma Lacan[2]. È la posizione del soggetto che pone, narcisisticamente, come causa della sua sofferenza sempre l’Altro: la cattiva volontà dell’altro, il rifiuto dell’altro, il suo cattivo carattere, il destino avverso, l’ingiustizia generale, il disordine del mondo… Lacan definisce «rettificazione dei rapporti del soggetto col reale»[3] quell’operazione compibile solo nella nevrosi che porta alla soggettivazione della responsabilità che il soggetto ha rispetto a ciò di cui si lamenta. La rettifica svela quanto il soggetto sia attivamente implicato rispetto ai tormenti che lo affliggono, nel disordine che accusa: un disordine che il soggetto alimenta, fomenta o contribuisce a fabbricare, più o meno manifestamente… e da cui trae un godimento. La rettifica soggettiva mette a nudo la posizione quantomeno equivoca del soggetto rispetto al godimento. Nella logica della cura, la rettifica soggettiva segna il passaggio etico dal riferimento alla realtà al reale, dalle accuse che il paziente rivolge al suo ambiente, in una posizione passiva rispetto ad un esterno ostile, o dalla richiesta di avere strumenti (pratici, cognitivi, emotivi, comportamentali…) che gli consentirebbero un migliore adattamento, al soggetto. L’esito logico della rettifica soggettiva è la divisione del soggetto. Come ricorda Freud: «L’inizio del trattamento comporta che l’ammalato modifichi il suo atteggiamento nei confronti della sua malattia. Abitualmente si è accontentato di lamentarsene, di trattarla come qualcosa di insensato, di sottovalutarne l’importanza; continuava per altro a esercitare verso le manifestazioni della malattia lo stesso comportamento rimuovente (e cioè la politica dello struzzo) che aveva già esercitato verso le cause di quella»[4]. Si tratta di una assunzione etica di responsabilità del proprio ruolo rispetto a ciò che il paziente dice deplorare, pervenendo alla rivelazione della propria parte giocata nel mantenere attivamente la situazione, indugiandovi sino a trarne, paradossalmente, dei benefici, una soddisfazione clandestina. La rettifica soggettiva è il tempo chiesto al soggetto per comprendere quanto egli stesso è implicato nei sintomi di cui si lamenta, giungendo a riconoscere nel proprio sintomo la cifra della propria particolare modalità di godimento. Riconoscersi la parte di reale nel proprio sintomo significa che vi è un godimento di cui il soggetto è promotore, un soddisfacimento che va aldilà del principio di piacere. Come afferma Miquel Bassols: «Il primo compito è convocare nella parola quel soggetto che a volte è solito rimanere in attesa sulla soglia o perfino nella sala d’attesa»[5].

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[1] J. Lacan, Intervento sul transfert (1951), in “Scritti”, Einaudi, 2002, p. 212.

[2] Ivi.

[3] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in “Scritti”, Einaudi, 2002, p. 593.

[4] S.Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare in Opere di S. Freud, Vol. VII, Boringhieri, 1980, p. 358.

[5] M. Bassols, L’atto di entrata, in AA. VV., Come iniziano le analisi. Atti del Convegno del Campo freudiano in Italia, Torino, 1994, p. 109.