Giuseppe Pozzi membro AME SLPcf e AMP

È dal silenzio che nasce la Parola, che si genera il Verbo. La parola/verbo che serve per R-Esistere al Reale, per R-Esistere con il Reale. Il passaggio dai colloqui preliminari all’analisi mostra il salto necessario per uscire allo scoperto del soggetto che sceglie, con il suo nuovo atto di parola, di affrontare il tragitto necessario per arrivare al suo singolare silenzio generativo.

Nel campo freudiano si è soliti paragonare il gioco degli scacchi al lavoro di analisi, con particolare riferimento all’importanza di come si inizia. Da come si entra in gioco, dalla prima mossa che si fa, si può capire anche come andrà il gioco. Non so se Dante Alighieri giocasse a scacchi. Certo oggi, saprebbe distinguere molto bene la differenza tra chiedere un’analisi e domandare un’analisi. La sua analisi ha avuto i suoi preliminari con il traghettatore, Caron Dimonio dagli occhi di bragia. Il suo lungo percorso da analizzante è iniziato salendo sulla barca del famoso psicopompo ed era già accompagnato da Virgilio, l’angelo custode necessario che sta dentro il nostro fianco per evitarci l’illusione di prendere la posizione dell’anima bella, per esempio. Come sosteneva già Seneca[1] con il suo allievo Lucillo, quando lo ammoniva di non accomodarsi cioè di non cadere nella trappola delle seduzioni o delle suggestioni del sapere, così ben imbandito da sempre e che oggi elargisce così tanta fama ai vari influencer del momento. Anche San Paolo nelle sue lettere a Timoteo sostiene la tesi di Seneca. Oggi si può ricorrere all’analisi personale per trovare la scansione che serve a generarsi, facendosi attraversare dal verbo che taglia il cordone ombelicale che realizza l’atto di esistere.

L’analisi lacaniana insegna che la palestra interpretativa, sotto transfert, ha delle scansioni molto ritmate, si potrebbe dire “redentrici” e che entrano in gioco ad ogni seduta d’analisi. C’è una qualche relazione o comunque è utile interrogarsi sull’inizio del come e con chi giocare a scacchi, con l’idea che la fine del gioco risenta del come lo si inizia? Va da sé che si tratta di un gioco con sé stessi o meglio con i propri demoni. La differenza tra chiedere di imparare a conoscere sé stessi – a cui Lacan rispondeva con un “se ne vada, quella è la porta” – e domandare un’analisi, a partire da una questione sintomatica che ci disorienta ma che ci implica soggettivamente, rimanda pur sempre ad una questione antica. Prima della scienza, la religione conosceva bene queste distinzioni. Che cosa mette allora in relazione tra loro il tempo dei preliminari con il tempo della fine analisi? La traversata del narcisismo rappresenta una bussola più chiara rispetto alla traversata del fantasma? La traversata del narcisismo mette in gioco un mistero forse più rappresentabile e che riguarda l’entrata e la fine dell’analisi? Questa traversata si traduce, in effetti, per l’analizzante, “con la soggettivazione della sua morte. La fine dell’analisi sarebbe accedere alla concezione, all’assunzione del suo statuto di essere-per-la-morte. Una volta dissipati i miraggi del narcisismo, resta la figura irrappresentabile della morte, come solo padrone che possa riconoscere l’analista, e la cui operazione si svilupperebbe, così, sotto lo sguardo della propria morte.”[2]

La parola, nel lavoro dei preliminari all’analisi, fluisce dall’esterno del soggetto come se fosse detta, pronunciata per il suo altro immaginario nell’attesa che possa interiorizzarsi simbolicamente, che possa essere incontrata singolarmente per generarsi. È per questo che l’analizzante tende spesso ad accomodarsi nel posto dell’anima bella, per cercare di continuare ad illudersi di usare la propria parola certamente ma per tenersi lontano dalla questione che lo riguarda. All’inizio pensa che sia sufficiente usare la parola che pronuncia ma che rimane esterna a lui, per così dire, separata da lui. Lui non c’è ancora, nelle sue parole, non lascia che il suo corpo venga attraversato dalle sue parole. Anzi rivolgersi ad un analista lo illude, a maggior ragione nel nostro tempo, di poter trovare quel che cerca, aspettando dalle parole dell’analista stesso, per esempio. Sorvoliamo sulla richiesta della diagnosi e del mercato delle certificazioni, soprattutto se si tratta di bambini, ma non solo. Si fa anche parecchia confusione tra suggestione e transfert e la domanda di analisi fa fatica a generarsi, ovviamente.

La questione diventa: come passare dai preliminari, dal luogo della parola esterna ma da me detta, all’analisi, luogo dove camminare per farmi attraversare dalla parola intima che mi genera?

Occorre incontrare l’inconscio, occorre incontrare l’Altro morto. Occorre incontrare, nella ripetizione che mi riguarda, il caso non come realtà fisica e oggettiva, ma caso che causa, che apre all’inconscio. Il caso viene servito sul piatto della ripetizione che insiste perché il soggetto possa incontrare il significante “segreto ed evidente” che lo causa, che lo implica da sempre. Per Freud l’inconscio è costruito sulla base di una nozione di tempo molto originale, il tempo dell’istante che insiste. Lacan pesca da Kierkegaard l’idea dell’istante come salto, implicato nell’atto libero che racchiude la dimensione di un istante eterno. L’atto di un istante in cui si coglie l’eternità. Per Kierkegaard l’esempio elettivo è quello del peccato originale – ogni volta che si pecca vi è un piccolo momento d’istante eterno che fa, della nostra sciocchezza, una metafisica. Il lavoro che si può organizzare nel tempo dei preliminari serve a far scoprire l’incontro con questo salto, questo istante che si può soggettivare sotto transfert. Oggi la scienza arriva ad illudere che possa esistere un futuro felice. Tanto futuro quanto irraggiungibile, non a caso. Molto tempo prima dell’avvento di questa scienza, il grande maestro (Meister) Johannes Eckhart riusciva ad utilizzare il magistero di San Paolo piegandolo alla fede della parola che si produce e si genera dal silenzio. Una fede nel salto che, oggi, solo con l’inconscio può essere sognato. «Quella parola è pronunciata interiormente. “Pronunciala”, significa che devi diventare interiore di ciò che è in te»[3]. Vi è la parola che si parla, quindi. Questo sì, in francese, è molto eloquente: è il ça a cui Lacan ci indirizza. Non incontrandola con la nostra carne, questa parola esce da noi e si irrigidisce nella rappresentazione che diviene proprietà di ciò che designa, che si deposita nel designatum[4]. Ma vi è la parola che permane in chi la pronuncia, come le immagini originarie delle creature permangono nel Padre, che pure è Logos[5]. E ancora … l’ex-primersi capovolga il proprio ‘senso’ e si trasformi in rammemorazione del più intimo di sè, «dove non penetrò mai il tempo, dove non risplende mai un’immagine»[6]. È questo il momento del silenzio sacro a cui può tendere il soggetto se riesce ad accettare di offrirsi al salto a cui l’inconscio lo attende.

Eckart ricevette molte critiche e venne denunciato dai suoi confratelli per affermazioni eretiche. Oggi avrebbe il suo posto d’onore nell’Elogio degli eretici di Jacques-Alain Miller, nonostante o forse grazie alle imputazioni di eresia che, comunque, dalle 49 imputazioni che ebbe, scesero a 17 ritenute eretiche dalla bolla papale di Giovanni XXII “In agro domenico” (1329).

L’incontro che, dal silenzio, il corpo incarna con la parola che lo genera è sempre un salto eretico. Ma questo avviene molto dopo che l’analisi ha potuto incominciare il suo cammino. Si tratta, tuttavia, di una parola che è sempre stata lì ad aspettare il soggetto, proprio come la morte nella canzone Samarcanda. «L’esistenza non ci fa uscire dal linguaggio. Per accedervi bisogna però considerare il linguaggio a un livello diverso da quello dell’essere, al livello della scrittura. …. La parola, di cui ho indicato le affinità con l’essere, può essere scritta»[7]. Si tratta di una scrittura che Miller chiama di “esistenza”. Per arrivare ad esistere occorre misurarsi con il reale e come Dante “Per correr miglior acque, alzai le vele …..”. inizia così, attraversando il Purgatorio dell’analisi, il cammino per la R-Esistenza che ci riguarda.

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[1] Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucillo, Libri undicesimo-tredicesimo, capitolo 88, paragrafo 2: “Perché si chiamano studi liberali lo capisci: perché sono degni di un uomo libero. Ma l’unico studio veramente liberale è quello che rende liberi, cioè lo studio della saggezza, sublime, forte, nobile: gli altri sono insignificanti e puerili. Pensi che in questi studi di cui sono maestri gli uomini più infami e dissoluti ci sia qualcosa di buono? Queste cose non dobbiamo impararle, ma averle imparate”.

[2] Jacques-Alain Miller, Antonio Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, Astrolabio, Roma, 2018, p. 138.

[3] Eckhart, Praedica verbum, in Sermoni tedeschi, p. 103.

[4] Massimo Cacciari, L’angelo necessario, Kindle, p. 23.

[5] Eckhart, Ave, gratia plena, in Sermoni tedeschi, cit., p. 47.

[6] Eckhart, Praedica verbum, in Sermoni tedeschi, cit., p. 103.

[7] Jacques-Alain Miller, Antonio Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, op. cit., p. 113.