Giuseppe Salzillo membro SLPcf e AMP

I colloqui preliminari servono a sfoltire la densità iniziale del sintomo e a verificare se il soggetto consente di cercare quei significanti non più riducibili. È la messa in forma del sintomo. Il sintomo è l’involucro di qualcos’altro da interrogare. Almeno così è per l’analista, che nei colloqui preliminari cerca di farlo intendere all’analizzante.

Inizialmente il sintomo ha un certo senso immaginario, risulta al soggetto statico: egli proverà a dargli una spiegazione, a trovare delle soluzioni concrete ma spesso immaginarie, fino al punto in cui il soggetto si rivolge a un analista per trovare una risposta a ciò che ormai è diventato enigma. L’analista fa emergere la dimensione simbolica del sintomo e nell’avanzare dell’analisi la sua dimensione reale che, era già emersa all’inizio, quando cioè il godimento era diventato insostenibile e la vita invivibile.

Il sintomo subisce delle modificazioni quando è messo sotto transfert: da costruzione inerte, statica, mettendo un piede nell’Altro, si mette in moto. La presenza dell’analista, il suo essere incluso nel sintomo apre a qualcosa di nuovo.

Resta una questione essenziale: nelle fasi preliminari della presa in carico, è opportuno chiedersi se il sintomo rappresenta una formazione di compromesso o se ha una funzione di stabilizzatore. Ecco perché i colloqui preliminari sono di estrema importanza.

Nel primo caso il sintomo è una modalità attraverso la quale il soggetto raggiunge una soddisfazione inconscia, ossia, è una costruzione grazie alla quale il soggetto accede a qualcosa del godimento, esso cioè veicola qualcosa del godimento che si cerca di recuperare proprio per effetto della castrazione simbolica, anche se è un recupero che costa dolore per il soggetto. Il godimento qui si colloca dal lato del soggetto e il sintomo acquisisce un valore metaforico, cioè è enigmatico perché ha la forma di una metafora della quale il soggetto non riesce a cogliere il senso, ed è proprio dove il senso barcolla e dove egli lamenta la sofferenza che troviamo il soggetto che gode nell’inconscio. È il soggetto diviso, $, che dice “non riesco, è più forte di me”. Qui si gioca la partita per la rettifica soggettiva: dal lamento, il soggetto potrà prendersi la responsabilità della propria sofferenza.

Nel secondo caso, che è quello della psicosi, attraverso il sintomo, il soggetto riesce a “tenersi in vita”, ovvero a non scompensarsi, è una costruzione per evitare l’angoscia di frammentazione, una soluzione per difendersi dal godimento dell’Altro. Il sintomo è un rattoppo ad una lacerazione profonda che colpisce il simbolico, è un tentativo autoindotto di stabilizzarsi. Può consistere anche in una mera identificazione immaginaria all’altro, per sostenersi. Essendo in questo caso il soggetto a essere goduto dall’Altro, il suo vero sintomo è proprio l’Altro: è quest’ultimo, la fonte delle sue sofferenze. In questo caso dobbiamo promuovere la rettifica non tanto del soggetto, come abbiamo visto nella nevrosi, ma dell’Altro: dobbiamo offrire un altro più regolato e meno capriccioso.

Per la nevrosi, quindi, abbiamo un trattamento preliminare del reale del godimento attraverso la metafora paterna, e nella psicosi, invece, a causa della forclusione del Nome-del-padre, tale trattamento non ha subìto la mediazione simbolica, e dunque, il lavoro clinico punta a favorire delle supplenze per un trattamento a posteriori del reale del godimento.

Nelle nevrosi il trattamento preliminare punta a far emergere la domanda in quanto elemento di mediazione e di articolazione tra sintomo e transfert. Nella clinica delle nevrosi si punta cioè a realizzare una duplice trasformazione della domanda: la “rettificazione soggettiva dei rapporti del soggetto col reale” e l’isterizzazione del discorso. La prima, evidenzia la trasformazione etica della domanda, la seconda una trasformazione euristica. La prima, dal punto di vista clinico, concerne quella posizione in cui il soggetto, estraniandosi dai fatti che lo riguardano, si considera innocente proprio rispetto alle cause di quella sofferenza che patisce. La trasformazione etica della domanda, in questo caso, si ottiene attraverso la sottolineatura della responsabilità che il soggetto ha nella costruzione e perseverazione delle condizioni alla base della sofferenza. L’altra trasformazione della domanda, quella euristica, è quella che concerne la dimensione dinamica della verità. Infatti, la richiesta d’aiuto è sempre collegata ad un oggetto immaginario, ossia ad una soluzione empirica di quel male che attanaglia e serve a mettere in secondo piano la volontà di sapere, facendo emergere la volontà di guarire senza volerne sapere. La clinica preliminare, in questo caso, consiste nel favorire un’interrogazione sulla causa della sofferenza, affinché il soggetto metta in moto una ricerca della verità. La verità della causa diventa più importante dello sradicamento della sofferenza: ecco l’isterizzazione del discorso, il discorso incentrato su una necessità di decifrazione che va aldilà della domanda di cura per far emerge la vera domanda, quella di niente. Il soggetto, attraverso la domanda, invoca un oggetto che non è articolabile, non è dicibile. Il soggetto soffre (si sente frustrato, angosciato) per il suo desiderio che è impossibile. L’analista fa apparire i significanti di questo niente essendo egli stesso niente.

Nella domanda psicotica ci sono altri aspetti di cui tenere conto. C’è qualcosa che vacilla, che scricchiola. Lo psicotico chiede qualcosa che possa rimarginare una profonda lacerazione, domanda di un significante che possa aiutarlo a fissare il senso, a “capitonare” la propria soggettività, ad ancorarsi a qualcosa. Domanda una regolazione dell’Altro, di delimitare il suo godimento, domanda un aiuto nel suo sforzo di arginarlo. In questi casi, invece di una rettifica del soggetto, è necessario una rettifica dell’Altro, cioè qui la castrazione si gioca sul lato dell’Altro.